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Cos'è la terapia occupazionale e come opera per restituire autonomia nei tre aspetti della vita quotidiana di un individuo: la cura del sé, la produttività e il tempo libero

IL TERAPISTA OCCUPAZIONALE

Dipendere da qualcuno, beninteso, non è di per sé negativo, così come non lo è chiedere aiuto. Ma, quando si parla di benessere psicofisico ed emotivo di una persona, l’obiettivo a cui la società intera deve tendere è permetterle di essere padrona di se stessa, a partire dal suo corpo, il più possibile ed il più a lungo possibile. Prima ancora che per una questione economica (e che si risparmi, sul lungo periodo, a fare prevenzione, è ampiamente dimostrato), per un dovere morale e civico che è sancito dalla nostra stessa Costituzione.

Tempo fa mi è capitato di cominciare a lavorare con una persona che, dopo essere stata ricoverata per qualche mese in una struttura convenzionata con l’ASL a causa di una brutta frattura al braccio, avrebbe poi dovuto continuare la riabilitazione anche dopo essere stata dimessa. Così, per qualche mese, l’ho accompagnata due volte a settimana per dei cicli di fisioterapia, logopedia e di una non meglio specificata “terapia occupazionale”. Quest’ultima non l’avevo mai sentita nominare, nonostante io lavori nel settore sociale come educatrice professionale da quasi vent’anni.

Inizialmente ho pensato ad una sorta di particolare collaborazione tra Centro per l’Impiego e la struttura, forse incentrata – che ne so? – sulla stesura di un Curriculum Vitae che tenesse conto delle nuove difficoltà fisiche della persona. Ovviamente chiedere ai diretti interessati non era contemplabile; in questi casi il mio personale codice morale mi propone infatti più o meno sempre le stesse tre soluzioni: A) Fingere di sapere di cosa si tratta e di nascosto far parlare l’utente, B) Fingere di sapere di cosa si tratta e, sempre di nascosto, cercare su internet, C) fingermi morta.

Poi, prima di poter decidere in quale di questi modi colmare la mia vergognosa ed inconfessabile lacuna, mi è capitato di dover fare irruzione nella stanza in cui la persona che assistevo stava svolgendo la famigerata terapia, scoprendo che non c’era alcun computer acceso su nessun sito di agenzie interinali: la mia assistita era sì seduta ad un tavolo, ma intenta a svolgere un’attività di manualità fine con chiodini e filo, supervisionata dalla terapista. Quest’ultima le stava giusto chiedendo se a casa riusciva ad abbassarsi abbastanza, da seduta, per infilarsi le calze e le scarpe da sola. Ero esterrefatta e ho fatto una cosa che solitamente non faccio mai: “ho chiesto”.

Sono così venuta a conoscenza, dopo tutto questo tempo, dell’esistenza di una professione preziosissima con cui avrei dovuto collaborare ogni singolo giorno della mia vita lavorativa: il terapista occupazionale. Egli non è né un recruiter, né un consulente del lavoro, ma un professionista sanitario che per poter praticare deve avere conseguito un’apposita laurea.

Tranquilli, le informazioni che sto per scrivere da qui in avanti non giungono da una raffazzonata ricerca su google, ma da un’intervista che ho condotto proprio a una terapista occupazionale, la dottoressa Martina Fava, che mi è stata gentilmente segnalata dall’AITO (l’Associazione Italiana Terapisti Occupazionali), quest’ultima effettivamente trovata su google. A fine articolo troverete tutti i contatti e tutti i link raccolti.

La dottoressa Fava attualmente lavora nel servizio di terapia occupazionale della casa di cura “Villa Ida”, a Lanzo, ha conseguito la laurea in terapia occupazionale presso il Centro di Recupero e Rieducazione Funzionale “Monsignor Luigi Novalese”, a Moncrivello (VC), una sede distaccata  dell’Università Cattolica di Roma.

Da quanto tempo esiste la vostra professione? In realtà si tratta di una figura nata dopo le due guerre mondiali, soprattutto dopo la seconda, per la necessità di riabilitare e, laddove possibile, reinserire nella società i soldati rimasti feriti o menomati. In Italia il profilo professionale nasce ufficialmente nel 1997, di fatto scindendo in più professionalità specifiche la figura più ampia, fino a quel momento esistente, del Terapista della Riabilitazione.

Di cosa si occupa il terapista occupazionale? Il nostro obiettivo ultimo è quello di restituire autonomia alla persona, specie nei tre aspetti della sua vita quotidiana: la cura del sé, la produttività e il tempo libero.

In quali contesti operate, principalmente? Il nostro setting elettivo sarebbe la casa del paziente, ed eventualmente anche il suo ambiente di lavoro, dove dovremmo operare allenando la persona a recuperare le sue abilità o anche  modificando l’ambiente ai suoi nuovi bisogni. Si tratta di abbattere barriere non solo architettoniche, ma anche sociali, motorie, cognitive, affinché la persona possa tornare ad essere il più autonoma possibile. Più facilmente, però, per lo meno in Piemonte, finiamo per operare in Centri di Riabilitazione o Case di Cura con persone ricoverate per brevi periodi in seguito a incidenti, ictus, infarti…

Cosa si deve fare per ottenere una terapia occupazionale? La terapia occupazionale può essere prescritta come terapia riabilitativa dal medico curante, da un fisiatra o da un ortopedico, ma purtroppo l’intervento resta privato, non convenzionato, almeno quando preso singolarmente (all’interno di un percorso riabilitativo più ampio conseguente ad esempio a un incidente, com’è stato per la persona che ho assistito, potrebbe essere diverso, perché fa parte di una sorta di pacchetto).

Perché fare terapia occupazionale con persone anziane, le cui abilità sono comunque destinate a diminuire? Senza dover scomodare l’obiettivo etico principale, che è il benessere della persona, direi anche solo perché la nostra vita si è allungata molto. L’età media dei nostri pazienti si sta abbassando sensibilmente: parliamo di 60/75enni, che sembreranno anche “vecchi”, ma in realtà sono persone che non sono ancora in pensione, che hanno una famiglia e una casa da gestire. Sono persone a tutti gli effetti attive e produttive che in qualche modo devono poter tornare alla loro vita di prima. In  più, guardando anche ai più anziani, se una persona è motivata a “fare” (che sia anche solo giocare a carte o impegnarsi in attività piacevoli e gratificanti durante la giornata) riuscirà a tenere a bada o rimandare nel tempo l’insorgenza di fragilità o patologie che contribuirebbero alla sua ospedalizzazione, con costi più alti a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Per cui conviene al welfare italiano stesso che le persone restino attive e autonome il più a lungo possibile. Oltre che più felici possibile, aggiungo.

Com’è strutturato fisicamente il vostro servizio di terapia occupazionale, all’interno delle case di cura? Al Centro di Recupero e Rieducazione Funzionale di Moncrivello vi sono proprio degli appartamenti in cui i pazienti possono sperimentarsi prima di tornare a casa. Nelle case di cura ciò solitamente non è possibile, ma si cerca comunque di creare uno spazio che ricordi l’ambiente domestico: a Villa Ida, ad esempio, abbiamo una cucina a disposizione, un grande tavolo dove svolgere tutta una serie di attività manuali ed altri oggetti di casa come stendini, asse e ferro da stiro, un bancone con attrezzi di falegnameria… Spesso svolgiamo la terapia in camera dei pazienti, proprio per lavorare sull’autonomia nell’alzarsi e rimettersi seduti sul letto, ed in bagno, per la cura di sé (ad esempio vestirsi e svestirsi) e la pulizia di sé: troviamo insieme a loro strategie perché possano continuare ad essere autonomi in queste azioni nonostante, che so, un braccio o una mano non più funzionanti.

Di cosa si occupa l’Associazione Italiana Terapisti Occupazionali (AITO), di cui fai parte? L’AITO è nata per raggruppare tutti i terapisti occupazionali prima che esistesse il nostro albo, facendoci da garante, ponendosi come punto di riferimento a livello informativo e proponendoci formazione post laurea insieme alla Società Scientifica Italiana Terapisti Occupazionali (SITO), a cui dobbiamo rivolgerci se vogliamo sviluppare lo studio, ad esempio, di un nuovo strumento o trattamento di lavoro.

Puoi farmi degli esempi di strumenti, di ausilii, che proponete ai vostri pazienti di utilizzare a casa? Il nostro intervento in generale può essere di due tipi: se il paziente può recuperare le sue abilità originarie mettiamo in atto un trattamento restitutivo. Se invece il paziente non può recuperare le sue abilità originarie a causa di un danno permanente (per incidente, acutizzazione di una malattia o anche dalla nascita), allora opereremo un trattamento compensativo; in questo secondo caso, oltre a modificare adeguatamente l’ambiente domestico e quello di lavoro (ad esempio tavoli più bassi, sedie specifiche, sbarre e mancorrenti a cui tenersi, armadi ad ante scorrevoli invece che battenti), il terapista doterà la persona dei giusti ausilii (infila calze, pinze con il manico allungabile, spugna con il manico lungo…) e le insegnerà tecniche e movimenti specifici, ad esempio per infilare maglie con un arto immobilizzato in conseguenza a un ictus o infarto.

“Nel Mulino che vorrei”… Come dovrebbe essere il tuo lavoro che adesso non è? Ci sarebbe bisogno di meno ospedalizzazione e più lavoro sugli ambienti di vita e lavoro. Innanzitutto sarebbe una spesa minore per il Servizio Sanitario Nazionale, e poi se potessimo agire direttamente sul campo il nostro intervento risulterebbe più veloce ed efficace, con un recupero maggiore di autonomia da parte dei pazienti. Spesso siamo costretti a far visionare loro video per fargli capire cosa fare, una volta a casa. Mostrarglielo di persona a casa loro sarebbe tutta un’altra cosa. Sarebbe bello poter reinserire nel suo contesto di vita una persona che presenta delle fragilità senza farla sentire “il malato” senza possibilità di recupero significativo, restituendogli qualità di vita.

Quello che servirebbe sarebbe una maggior conoscenza della nostra professione da parte anche solo dei medici di base: quante volte una persona anziana si è lamentata con il suo dottore di faticare a mettersi le scarpe da sola? Quest’ultimo certamente le dirà: “Mettiamo a posto la tua schiena!”, prescrivendogli sedute di fisioterapia. Ma se la schiena in questione non fosse aggiustabile? Non potrà più mettersi le scarpe da solo? La risposta non è per forza l’assistenza di un’altra persona da lì in avanti. Questo sarebbe il momento giusto per l’ingresso in scena di un terapista occupazionale.

Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento ecco alcuni link utili:

www.terapiaoccupazionale.it

http://www.aito.it

http://www.facebook.com/SITOIT

 

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