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"Solo un ragazzo", l'ultimo romanzo della scrittrice torinese. Perché la verità non è mai unica e impositiva, ma sempre interpretabile

LA LEZIONE D’AMORE DI ELENA VARVELLO

Solo un ragazzo (Einaudi, 2020) è l’ultimo romanzo di Elena Varvello e narra la storia di una famiglia colpita dalla perdita di un figlio, devastata da un dolore indicibile, a maggior ragione per le circostanze in cui avviene. Questo figlio, infatti, è solo un ragazzo quando il dramma da lui creato esplode su chi gli sta intorno e lo ama: una famiglia qualsiasi di un paesino come tanti che, improvvisamente, si trova a dover dare un senso alla scomparsa, ad accettare il senso di colpa e il vuoto, riuscendo a mantenere in vita un amore inestinguibile e caparbio.

Il romanzo

Il romanzo comincia nel 2009, quando alcuni ragazzi del paese scoprono una capanna nel bosco con dentro uno spazzolino, un cacciavite e una tazza; la capanna si mostra subito come un luogo minaccioso e denso di inquietudine, nella cui penombra potrebbe emergere chiunque per fare qualsiasi cosa. La storia continua spostandosi nel tempo, quando i genitori del ragazzo, Sara e Pietro, sono ormai anziani e ripercorrono la loro vita e i loro ricordi, ma senza mai cadere nel sentimentale: la narrazione è infatti caratterizzata da una forte tensione emotiva, quasi thrilling. Eppure, “Solo un ragazzo” trabocca d’amore, un amore cieco e furente, un amore che anche quando non capisce, non si arrende: c’è quello di una madre (Sara) per l’enigmatico figlio scomparso, quello tra i due genitori e del loro controverso rapporto con la vita; infine ci sono l’amore di due sorelle molto diverse, tra amiche e persino l’amore per gli sconosciuti incontrati per caso. In particolare, il personaggio della madre, Sara, è tratteggiato in maniera sublime: è una donna che ci fa arrabbiare, che sembra non reagire, ma continua a essere illuminata, a risplendere di speranza anche nel buio delle notti più nere, quando fuori la neve turbina e gela la terra senza pietà.

Nessuno sa cosa sia accaduto davvero in quella lontana estate del 1989, nessuno si capacita di come questo ragazzo (di cui non conosceremo mai il nome) abbia potuto compiere certe azioni: Aveva messo al mondo un delinquente, dicevano le voci quell’estate. Violento e imprevedibile. Rabbioso. Aveva approfittato di una finestra aperta. Si era perfino armato. Li aveva colti nel sonno – Gemma, il marito e la bambina. Terribile, davvero. Ma, in fondo, non era sempre stato strano?
Strano come può esserlo solo l’adolescenza, con la sua furia distruttiva, i suoi misteri, le sue passioni totalizzanti: quel momento nel quale si può diventare sconosciuti anche a se stessi.

Inoltre, questa è una storia così toccante perché indica silenziosamente la parte nera che potrebbe abitare in ognuno di noi: chiunque potrebbe essere il bravo ragazzo o i genitori che lo hanno messo al mondo, comprendere come, spinto da chissà quale impeto, possa esser arrivato a compiere azioni tanto folli e gratuite.

L’intervista

Abbiamo intervistato Elena Varvello per farci raccontare dalle sue parole come è nato un romanzo così coinvolgente quanto destabilizzante.

«Come tutti i miei scritti, anche Solo un ragazzo nasce inconsapevolmente, da storie che mi sono sentita raccontare o che ho ascoltato per caso. Capita proprio così: incontro qualcuno, parlo di qualcosa e dopo, solo in un secondo momento, si accende una luce; ecco, quando le immagini mi ritornano in testa sempre più spesso e con vigore, allora mi rendo conto che qualcosa sta sedimentando e chiedendo attenzione. La stessa cosa succede per le ambientazioni: i personaggi trovano il loro habitat in modo naturale, senza che io me ne accorga».

I luoghi sono importanti nei libri della scrittrice torinese e, come nel caso di Kent Haruf o Elizabeth Strout (peraltro suoi grandi mentori), hanno sempre una loro personalità, nonché caratteristiche simili, quasi fosse un’unica ambientazione, seguita in ogni suo riverbero: piccole comunità di mezza montagna, situate fuori dalla città ma non così lontano da essa; la civiltà urbana arriva sempre a lambirle con le sue estreme propaggini: capannoni, centri commerciali, anonimi parcheggi.

«In effetti, sono puzzle di spazi che conosco, “a portata di gita giornaliera”. Se Croci de La luce perfetta del giorno era ritagliata su Pino, il luogo dove vivo, Ponte de La Vita Felice ha invece comportato numerosi giri con reportage».

Reportage? In che senso?

«Quando ho bisogno di conoscere meglio un posto, vado alla ricerca della sua atmosfera recandomi sul luogo con qualcuno. È necessario che ci sia qualcuno, perché mentre parlo, guardo, giro, mi distraggo e così riesco a percepire l’atmosfera più autentica del luogo. Poi scatto anche delle fotografie e, quando non ci posso andare io, chiedo agli altri di mandarmele. Mi piace fermare gli scorci che trovo più suggestivi da un punto di vista narrativo. E’ una sorta di documentazione che mi serve quando scrivo, per rievocare le impressioni avute. Ponte e Cave, il vecchio cotonificio dismesso, le grotte, i boschi, il torrente che attraversa una valle dove d’inverno alle quattro il sole già scompare dietro le sagome dei monti, tutti questi sono luoghi che esistono ma solo in parte, perché sono frammenti di Lanzo Torinese (da cui il nome “Ponte”) ma anche di Piedicavallo, nell’Alta Valle Cervo. È poi la mia immaginazione che li unisce e li ricrea secondo una topografia sviluppata intorno al romanzo».

La città, Torino, invece non c’è mai.

«No, non ho mai scritto nulla ambientato a Torino, nonostante ci sia nata. Per me è un luogo fondamentale sia per la mia formazione (università e Holden) sia per le amicizie (i miei amici sono tuttora lì), ma le mie storie vanno sempre a nascere e svilupparsi oltre i suoi confini».

Si ritorna sempre nei luoghi che ci hanno segnato. Un altro topos delle opere di Elena è la famiglia, nido in cui rifugiarsi ma anche prigione dalla quale scappare. In ogni caso, luogo foriero di ispirazione. In particolare per gli scrittori o gli artisti, spesso la famiglia non è uno spazio sereno perché i parenti possono faticare ad accettare il lato creativo, l’urgenza di scrivere e di aver fede nella propria voce. Per fortuna, questo non è stato il caso della Varvello…

«Non mi sono mai sentita bloccata dalla mia famiglia, né da quella di origine, né da quella che mi sono creata; sebbene i miei non mi abbiano mai spronata apertamente, non mi hanno neppure ostacolata. Quando presi la decisione di andare al liceo classico, loro non erano molto d’accordo, eppure non mi hanno mai fatto discorsi del tipo “Fai qualcosa di concreto”. E così con la Holden. Forse tutto deriva dal fatto che la sorella di mio padre era una giornalista e poetessa e credo lui rivedesse in me una sorta di tratto di famiglia, una prosecuzione di questa zia che lui amava molto. E così anche per i miei figli e mio marito: non mi sono mai sentita castrata. Quando esce un mio nuovo libro, loro vengono sempre alla prima presentazione, anche se la definirei più una “contentezza affettiva” per me. Loro non leggono, non mi leggono, ma è giusto così: uno è ancora troppo legato al concetto libri uguale scuola, mentre l’altro è un ventiduenne molto pragmatico. Immagino ci possa essere anche un po’ di imbarazzo a “leggere la propria mamma” sebbene credo che a loro non dispiaccia che io sia una scrittrice: un po’ come se fossi una “mamma un po’ strana, ma non proprio pazza”, quindi va bene così». (ride)

A proposito di ragazzi, tu che insegni alla Holden ormai da anni e che parli così spesso di giovani nei tuoi libri (hai anche pubblicato una riscrittura in chiave moderna di Cime Tempestose), che letture consiglieresti a quella fascia d’età tra le medie e le superiori, 13-16 anni?

«Beh, non credo consiglierei Cime Tempestose, anche se lo amo molto. E così per molti classici: a quell’età rischiano di trovarli troppo lontani dalle loro vite e smettere di leggere. Direi loro, prima di tutto, di cercare nel genere che amano: se sono lettori di fantasy o di horror, partano da lì per poi iniziare ad allargare lo sguardo e documentarsi da chi abbiano preso ispirazione gli autori che apprezzano. In questo modo si arriva ai classici – ma solo quando si è davvero pronti.
Se dovessi invece consigliare uno scrittore crossover che sappia parlare con una lingua che emozioni i ragazzi ma che sia di livello letterario alto, senza dubbio sceglierei Niccolò Ammaniti. “Io non ho paura” non è destinato ai ragazzi ma ha un linguaggio così cristallino e diretto che può tranquillamente essere approcciato e amato anche da loro».

E ai giovani aspiranti scrittori, quelli che per esempio scrivono su Wattpad, che cosa consiglieresti?

«Prima di tutto sottolineerei che non si può scrivere senza leggere. Anzi, è fondamentale leggere tanto e, all’inizio, anche provare a copiare ciò che ci piace. Consiglierei poi di imparare a leggere in modo consapevole, non solo per intrattenersi: bisogna andare a snidare i segreti dei grandi scrittori, imparare le tecniche da chi le conosce bene, per capire come loro abbiano risolto le difficoltà. Poi ricorderei loro che si scrive per essere letti, non per sfogarsi – quando si sta male ci si deve rivolgere al proprio diario – ma non si deve neppure scrivere per dimostrare alcunché. Si deve scrivere perché si ama scrivere sopra ogni altra cosa».

Ed Elena, in Solo un ragazzo mette in pratica questa lezione d’amore con estrema maestria, narrandoci «tutta la verità, ma in maniera sghemba, laterale, obliqua», come ci ricorda la citazione di Emily Bronte in esergo all’opera Tell all the truth but tell it slant. La verità non è mai unica e impositiva, ma sempre interpretabile.

La scrittrice

Elena Varvello è nata nel 1971 e abita sulle colline di Torino in una casa piena di libri, colori, piante e animali. È la casa dove è cresciuta e risuona delle sue storie accogliendoti esattamente come fa lei, con il sorriso e la battuta pronta. Dalla cucina affacciata sul giardino si vede il trascorrere delle stagioni, la neve che ricopre copiosa i boschi intorno, la primavera che esplode nei cespugli dove vanno a nascondersi le sue galline, l’estate sonnolenta come i gatti spaparanzati sul divano. Elena è autrice di numerose poesie (“Perseveranza è salutare”, “Atlanti”), di racconti (“L’economia delle cose” raccolta che nel 2008 è stata selezionata per il Premio Strega e con la quale ha vinto il Settembrini e il Bagutta Opera Prima). I suoi romanzi precedenti sono “La luce perfetta del giorno”, “La vita felice” e “Solo un ragazzo”. I diritti cinematografici de “La Vita Felice” sono stati opzionati in Gran Bretagna.

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