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Il ventinovenne dalla doppia cittadinanza ha scelto di trasferirsi dal Ciriacese a San Pietroburgo per svolgere l'attività di educatore, raccogliendo le proprie riflessioni su un blog

ENRICO FRANCONE: SE NON È RUSSIA È PAN BAGNATO

Enrico "Frankie" Francone a San Pietroburgo

Scritto da Chiara Moretti

15 Febbraio 2021

Enrico Francone è un educatore professionale ciriacese di 29 anni partito per la Russia il 27 ottobre 2020, durante la pandemia, per un’esperienza di lavoro all’estero. Da quando è là ha aperto su WordPress.com un blog, una sorta di diario di viaggio, che si intitola “Se non è Russia è pan bagnato” (https://senonerussiaepanbagnato.wordpress.com/).

Lo abbiamo raggiunto a San Pietroburgo per fargli qualche domanda. Vylet iz!

Com’è maturata l’idea di fare questa esperienza all’estero? E perché proprio la Russia?

«Ormai è da un po’ di anni che faccio esperienze nell’Est Europa: sono già stato circa un anno in Estonia, nel 2012/13, in un Centro di Accoglienza Giovanile, e altri 11 mesi, tra il 2015/16 in Romania, a Timisoara, inizialmente per un progetto che si occupava di minori a rischio, di vittime di violenza e di tratta, e poi in un campo di transito per rifugiati. Quelle esperienze,  e ancor di più questa che sto svolgendo qui a San Pietroburgo, non afferiscono soltanto all’ambito lavorativo, alla mia formazione professionale e personale, ma scavano più a fondo, nella mia identità. Quello che sto svolgendo è anche un viaggio interiore il cui obiettivo è, credo, riappacificare le mie due identità, quella italiana e quella russa. Mia madre infatti è russa e, pur essendo nato e vissuto sempre in Italia, io e mia sorella siamo cresciuti immersi da sempre nelle sue tradizioni russe: dal cibo, alla letteratura, ai cartoni animati…»

Puoi darci qualche nome?

«Te ne dico quattro che secondo me sono i più bei cartoni russi mai fatti: Vinni-Pukh (si, la versione russa di Winnie The Pooh!), Nu pogodi! (“Me la pagherai!”, un lupo che cerca sempre, invano, di catturare una lepre), Karlsson (tratto dal libro di “Karlsson sul tetto” di Astrid Lindgren, autrice svedese madre, tra l’altro, anche di Pippi Calzelunghe) e Cheburashka (un piccolo animale sconosciuto agli scienziati, scelto come mascotte dalla squadra olimpica russa di Atene 2004)… immagino si possano trovare facilmente su Youtube.

I piatti tipici della mia famiglia invece sono il Borscht, il Pel’meni, il Varenki, il Bliny (delle specie di crepes), il Syrniki, il Pirog, la Smietana (un derivato del latte simile alla panna)… sono tutti prodotti che fanno parte appieno della cucina russa, anche se qualcuno potrebbe avere origini nell’ex URSS, come il Borscht, che potrebbe essere ucraino (mia madre ha un cognome ucraino e la regione dove abita mia nonna è vicina al confine con l’Ucraina)»

Com’è stato crescere con due identità, con due cittadinanze?

«Ho subito bullismo, se è quello che intendi, da parte di chi mi conosceva un po’, anche mio malgrado: vicini di casa e compagni di scuola delle superiori, per lo più, spesso leghisti o simpatizzanti, che sapevano che ero cresciuto con un’altra cultura e non accettavano la mia doppia origine. Con chi non sapeva chi ero la mia doppia identità restava invisibile: potevo decidere se raccontarlo o no, e io per tanto tempo ho deciso semplicemente di ometterlo, forse per evitare domande scomode o pregiudizi. Quando sono diventato politicamente più consapevole e più abile a dibattere l’ho anche usata come un’arma a mio vantaggio, ma è avvenuto in un secondo momento. Col passare degli anni ho compreso che non doveva essere un aut-aut, ma che questi due aspetti di me avrebbero potuto convivere, con un equilibrio che dovevo ancora trovare; da lì, nel tempo, è pian piano maturata dentro me l’esigenza di approfondire il mio lato russo. I racconti dei miei genitori (che si sono incontrati in Russia mentre mio padre era là per lavoro) non mi bastavano più: era arrivato il momento di un’immersione completa e prolungata. Tra l’altro mi fa specie essere intervistato per la mia vita qui in Russia, perché quando mio padre lavorava in Siberia venne a sua volta intervistato da un quotidiano locale perché non avevano mai visto un italiano da quelle parti!»» (La foto che Enrico ci ha chiesto di utilizzare a corredo dell’intervista ricorda quella del giornale russo per cui si mise in posa il padre, al tempo)

Come hai organizzato questo viaggio?

«Ho presentato, tramite il comune di Cinisello Balsamo (Mi), domanda per un progetto di volontariato europeo all’interno dell’iniziativa “European Solidarity Corps”, che offre ai giovani tra i 18 e i 30 anni opportunità di lavoro o volontariato a breve termine (da due settimane a due mesi) o a lungo termine (da due a dodici mesi). Io ho optato per un’esperienza long-term.

Mi sono offerto per un progetto proposto dall’associazione russa “Prospectivie”, che opera con disabili e minori a rischio: nello specifico, un’esperienza di lavoro in una struttura residenziale per persone con disabilità, a pochi km da San Pietroburgo. Il centro è un edificio molto grande, organizzato in dipartimenti (ce ne sono dodici o tredici, in tutto). Un piano intero è dedicato alle attività laboratoriali, che sono davvero molte, e vi è anche un grande parco esterno. Ogni dipartimento ospita una settantina di persone con varie disabilità e, a parte qualche gita occasionale, gli ospiti non escono dalla struttura: non vi è integrazione con la comunità locale. L’associazione “Prospectivie” opera da 20 anni in alcuni dipartimenti della struttura come ente esterno: i suoi dipendenti e volontari integrano, con i loro interventi educativi, il lavoro sanitario e assistenziale degli operatori statali, ma a dir la verità tra le due équipe vige una gerarchia molto rigida e il conflitto è tangibile. L’associazione riesce ad avere del personale pagato grazie a donazioni di privati, che giungono anche dall’estero (l’associazione stessa è stata creata da una donna tedesca), ma gran parte della sua équipe è composta da volontari».

In cosa consiste il tuo lavoro? Chi affianchi?

«Non affianco nessuno! Qui i volontari operano al posto del personale: io stesso dopo due o tre giorni sono stato lasciato da solo. Ho poi chiesto di essere affiancato almeno da un altro volontario, arrivato dopo un mese che ero qui. Ora collaboro con questo signore di 63 anni, un volontario locale, non straniero: di solito i volontari stranieri sono più numerosi, soprattutto tedeschi, ma con il Coronavirus si sono fermate le domande, e comunque è più difficile partire per andare in uno stato diverso dal proprio. Io credo di essere stato molto fortunato grazie alla mia cittadinanza russa (e ad aver preso il volo in tempo prima della chiusura delle frontiere). Un altro aspetto che mi ha lasciato molto perplesso è che i volontari non devono per forza avere titoli o esperienza in ambito socio-assistenziale: un ragazzo qualunque, appena maggiorenne, può trovarsi lanciato in questo contesto e, senza riunioni d’équipe né supervisione (garantite trimestralmente al solo personale pagato), penso ci si possa sentire facilmente… persi. Faccio fatica io, che ho titolo da educatore ed esperienza pluriennale! Senza contare la difficoltà della lingua…

In ogni caso sono stato assegnato a uno specifico dipartimento ed in particolare a tre palata (camerate da cinque o sei posti letto ciascuna); lavoro quattro giorni a settimana dalle 9.30 alle 16.30, mentre il quinto giorno è dedicato alla formazione online (ma non riguardante le persone con cui lavoriamo). I volontari, come gli operatori, si occupano di fornire assistenza agli ospiti della struttura dal momento in cui si alzano dal letto: cura della persona, vestizione, attività laboratoriali mattutine e pomeridiane, pranzo (che avviene dopo quello degli operatori, verso le 13,30/14… sull’orario dei pasti devo però specificare una cosa: a San Pietroburgo – ma credo si possa generalizzare alla Russia – non vi è di solito un orario definito per mangiare; si mangia quando si ha fame, che siano le 11 o le 15).

Una struttura gerarchica esiste, oltre che tra gli operatori dei due enti, anche all’interno delle singole palata, tra chi ci vive; di solito chi parla, chi riesce a comunicare verbalmente o comunque a farsi capire, nella camerata, è gerarchicamente più forte, più in alto degli altri ospiti, e questo crea un doppio, ambivalente ruolo: potenziale bullo, da una parte, ma allo stesso tempo portavoce delle istanze dei suoi compagni, ruolo a volte riconosciuto e rafforzato dagli operatori stessi. La stessa persona può quindi trovarsi nei panni di aguzzino E ambasciatore dei suoi coinquilini. È spiazzante».

Com’è, quindi, vivere in Russia?

«Chiaramente il clima è più rigido che in Italia: oggi, ad esempio (07/01/2021), la temperatura massima oscilla tra i -6° e i -3°, ma non è una giornata particolarmente fredda: arriveremo anche a -15°, di giorno. Il gran freddo che si sente in più, qui a San Pietroburgo, è dato dall’umidità, che è bestiale. Diciamo che devi essere ben vestito, per uscire, e io, a differenza dei san pietroburghesi, già ora non riesco a farlo senza guanti e cappello! A livello culturale, invece, devi tenere conto che San Pietroburgo, così come Mosca, non può rappresentare la Russia: entrambe sono infatti due città a tutti gli effetti europeizzate, globalizzate, e a dirlo sono i loro stessi abitanti».

Parliamo di pregiudizi: la Russia e i russi sono subito associati all’alcool: è davvero (ancora) così?

«I russi, soprattutto le vecchie generazioni, amano bere, ma i giovani non vedono di buon occhio chi beve alcolici e superalcolici, fino ad arrivare all’estremo opposto: il mio coinquilino, un estone nato nella parte russa dell’Estonia, è convinto che chi beva una birra al giorno sia già un alcolista. Il governo stesso sta da tempo tentando di sensibilizzare la popolazione a bere meno, a volte con campagne… creative: al lancio di quella vaccinale per contrastare il coronavirus, ad esempio, gli esperti sanitari hanno affermato che, perché il vaccino sia efficace, ci si debba astenere dall’alcool per almeno due mesi».

Quando questo progetto sarà terminato cosa farai?

«Di sicuro ho voglia di ricongiungermi con la mia compagna, se per restare in Italia o ripartire non saprei, è una cosa che decideremo insieme. In passato ho valutato la possibilità di vivere stabilmente all’estero, ma in quel caso la Russia e gran parte dell’ex blocco sovietico non sarebbero la mia scelta, per via del mio lavoro di educatore: a parte l’Estonia, infatti, che guarda al mondo scandinavo ricalcandone anche il welfare, il resto dei Paesi dell’Est tendenzialmente ha un piano socio-assistenziale piuttosto scarno. Seppur la Russia offra molteplici opportunità, queste valgono per altre professioni, come ad esempio il programmatore informatico. A San Pietroburgo, giusto per chiarire la differenza, un programmatore informatico guadagna più di 3000 euro; un educatore professionale ne guadagna 300. Il settore informatico – tecnologico è quello a cui si sta prestando più attenzione, non certo quello socio-assistenziale. Inoltre bisogna fare i conti con le proprie idee politiche, soprattutto se si fa attivismo, per le quali, pur non correndo pericoli fisici (che invece corre un omosessuale, per contro), è molto probabile che ti sarà preclusa o comunque ostacolata la possibilità di fare carriera lavorativa.

Se hai in mente di andare a vivere all’estero, soprattutto stabilmente, devi valutare bene molti aspetti, non solo quello lavorativo, o quello climatico, o quello economico: non si può predire tutto, certo, ma per fortuna ci si può informare molto bene e farsi un’idea piuttosto precisa, grazie a ricerche approfondite su internet e affidandosi agli enti preposti. Ha altrettanto peso, infatti, il mondo delle relazioni in cui dovrai immergerti, la possibilità di poter essere te stesso o meno, e a che prezzo,  e soprattutto l’opportunità di essere felice».

 

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