Il cibo come scoperta e conoscenza dell’altro. E se c’è la volontà di mettersi in discussione ed accoglierlo, l’altro, ecco che il cibo diventa la migliore rappresentazione della società: quella multietnica, quella delle diverse lingue e culture che si incontrano e si fondono in armonia ed equilibrio. Nonostante il termine cucina fusion sia salito agli onori delle cronache e dei palati negli anni settanta, esplodendo poi nell’età contemporanea con la globalizzazione, gli antropologi del cibo (sì, si chiamano proprio così) ci tengono a sottolineare come in realtà questo atteggiamento di scoperta e di mescolanza abbia radici molto più profonde nella storia. Già solo guardando dentro ai nostri confini, immergendoci nella cultura del cibo e soffermandoci a riflettere e a gustare quelle che chiamiamo cucine tradizionali, possiamo scovare gusti e profumi di terre e tempi lontani: i greci prima, poi i mori, gli spagnoli e i portoghesi nelle terre del Sud; e che dire dell’influenza francese e austriaca sul Nord Italia, con buona pace dei puristi tradizionalisti e di chi grida allo scandalo. E senza star a scomodare pagine di storia ormai dimenticate e curiosando dentro a ciascuna delle famiglie italiane, è possibile scovare parenti, più o meno prossimi, provenienti da altre regioni o Paesi e rendersi conto di come questi abbiano portato fin nella cucina d’accoglienza le proprie usanze e i propri gusti dando vita a qualcosa di nuovo e perfettamente coniugato.
Il cibo come fusione di mondi, nel quartiere Cit Turin
Parlando di cibo, dunque, quale palcoscenico migliore per questa fusione di mondi, idee, cucine e vite se non Torino? Ma non Porta Palazzo, tradizionalmente e storicamente cuore pulsante del meltimg pot piemontese, tantomeno il centro delle grandi vetrine e dello “struscio”, ma il Cit Turin, bellissimo e storico quartiere in stile liberty che ha saputo mantenere quel sapore di antico e di tempo sospeso in mezzo a tanta modernità. Proprio qui, c’è chi ha fatto di questo connubio una scelta di vita e professionale: Daniela, piemontese doc, e suo marito Martìn, peruviano, sono partiti dal loro personale gioco di contrasti culturali, fisici, cariatteriali, dando vita al ristorante creperìa Bariolé.
In effetti Bariolé, che in francese significa variegato, variopinto, è un esempio di approdo culinario in cui il cibo, i gusti e i profumi piemontesi sposano la cucina a chilometro zero, con uno sguardo rivolto al mondo. Nomen omen, direbbero i latini: un destino dentro a un nome. Quella di Daniela e Martìn è una cucina fusion, dunque, in cui il coté francese diventa solo un pretesto poiché crêpe, galette, crespelle, waffel, blinis, pancake, con o senza uova, senza latticini o glutine, sono la versatile declinazione della cucina base in tutte le culture e consentono alla chef Daniela Gugliermetti di proporre la tradizione gastronomica del Piemonte accanto ai sapori esotici della buonissima e gustosa cucina sudamericana e non solo. “Crêpes is the new black”, recita il titolo di un libro di cucina uscito nel 2017: le crêpes sono l’ever-green, la petite robe noire di Madame Chanel, l’elemento base che non può mancare in ogni cucina che si rispetti.
Da Daniela e Martìn, dove il cibo è davvero cultura
Daniela ci attende all’interno del suo locale con le luci ormai soffuse e il silenzio del fine servizio alle spalle; il profumo di cucina è ancora intenso, caldo e così avvolgente da riuscire a riempirti i polmoni e a farti venire l’acquolina, nonostante le mascherine. Martín è corso a prendere i bambini a scuola mentre Abib, Issa e Virignia, i ragazzi che lavorano qui, sono ormai sulla via di casa, visto che il lunedì sono aperti solo a pranzo. Quando le confidiamo che è il passaparola che ci ha spinto a “mettere il naso” e a curiosare in questa piccola bottega del gusto, dove il cibo è davvero cultura, appare sorpresa e con un leggero imbarazzo che le accende lo sguardo.
Nasce architetto, Daniela, un lavoro che le piaceva e che soddisfaceva ampiamente il suo lato creativo, permettendole di occuparsi di allestimenti per mostre e fiere. Fino al 2008, anno in cui la bolla speculativa americana è andata in frantumi mettendo in ginocchio anche le borse e le economie europee, tra le quali la nostra.
Purtroppo perde il lavoro: la giovane famiglia, che nel frattempo si era allargata con l’arrivo di Sofia, è da mantenere e il solo stipendio di Martín non basta. Accusato il colpo, Daniela però non si perde d’animo, prova ad inserirsi nei vari studi di architettura della città e intanto collabora con enti pubblici ma, giorno dopo giorno, sente che le scartoffie la stanno soffocando e che il bottino sempre più magro rasenta lo sfruttamento. Fortunatamente, non ha mai smesso di coltivare la sua passione per la cucina e la creatività del cibo, anche se a beneficiarne all’epoca erano solo il marito, la famiglia e i tanti amici. I riscontri sempre entusiastici dei commensali e le classiche battute “potresti aprire un ristorante” cominciano a solleticare la fantasia in Martín: ne parla con sua moglie, le illustra l’idea, gliela descrive nei minimi particolari, la travolge col suo entusiasmo e la convince a tentare. Daniela molla tutto e, sapendo di partire in svantaggio, va a fare tanta gavetta in un ristorante dove apprende che non conta solo saper cucinare, ma è fondamentale imparare la tecnica, l’organizzazione, la gestione e non ultimo la ricerca delle materie prime. Poi, finalmente, sei anni fa nasce Bariolé – Crêpes e Cromìe.
Quella passione intensa per i mille “colori” del cibo
Facciamo un passo indietro e torniamo al significato della parola bariolé, perchè i valori che contiene vanno ben oltre il cibo. Anzi, del cibo esaltano la meravigiosa capacità di unire e fondere culture apparentemente lontanissime. Bariolé: abbiamo detto “variegato”, multietnico come le anime che danno vita a questo luogo.
Daniela, vulcanica ma con i piedi ben piantati a terra da buona piemontese, è alta, sottile, dall’incarnato candido e gli occhi celesti, quasi trasparenti, e governa la cucina aiutata da Issa, presenza solida e fidata ormai da diversi anni, e Abib (detto Abi), ivoriano il primo e gambiano il secondo, due infaticabili ragazzoni scurissimi, sempre sorridenti e cortesi, che ha accolto e cresciuto professionalmente; poi Martín, l’altra metà di Bariolé, pelle ambrata e sguardo intenso, sorriso gioviale e contagioso, dalla vitalità spensierata e sempre positiva, si occupa della sala e del servizio insieme a Virginia, l’altro indispensabile elemento della brigata. Le due mascotte sono la figlia maggiore Sofia, 12 anni, e il piccolo Giulio di sei anni che ogni tanto bazzicano nel locale portandosi appresso i compagni per mangiare le crêpe tutti insieme. Menzione d’onore, infine, per i genitori di Daniela: fornitori ufficiali di prodotti «che più naturali non si può» perché provenienti dal loro orto a Grosso, dove vivono da sempre, tra il Ciriacese e le Valli di Lanzo; un grande orto che il signor Gugliermetti, ormai in pensione, non ha alcuna intenzione di ridimensionare e che produce così tanta frutta e verdura che spesso, troppa anche per la creperìa, Daniela condivide e distribuisce generosamente ai vicini del quartiere, in una sorta di rito ormai consolidato, così come si è soliti fare sù in paese. Daniela li chiama affettuosamente “i miei spacciatori di prelibatezze” perché, oltre ai rifornimenti, se ne arrivano sempre con qualche prodotto gourmand scovato e assaggiato da qualche margaro, o con salami di turgia artigianali delle valli di Lanzo, appositamente da far gustare ai clienti e inserire nel menù. Poi ci sono il macellaio “che ormai mi conosce e sa cosa voglio”, il pescivendolo e il verduriere con il suo banco al mercato che riesce a scovarle anche le spezie più particolari.
“Variegato” qui è anche il cliente. C’è quello fisso, quello di passaggio, e soprattutto l’affezionato: il cliente che viene perché si sente come a casa, viene per mangiare, chiacchierare e raccontarsi, molti gli anziani del quartiere, tanti i professionisti o con un’attività lungo la via. Con alcuni si è anche creato un legame speciale perché Daniela ha saputo fare breccia nelle loro vite e sciogliere il carattere un po’ schivo dei torinesi: «So far parlare anche i sassi», ammette in una risata contagiosa. I suoi clienti non l’hanno mollata nemmeno durante i due lockdown, anzi hanno cercato di aiutarla concretamente e con discrezione. Come l’anziana signora che una volta a settimana ordinava due crêpe e ben due bottiglie di vino, seppur astemia, giustificandole timidamente come un regalo per il cognato, sottintendendo così il suo piccolo e personale gesto per rendere lo scontrino un po’ più sostanzioso e contribuire, per quanto possibile, alla sopravvivenza del Bariolé. E come lei tanti altri a cui Daniela e Martín sentono di dire grazie dal profondo del cuore.
C’è un filo diretto che unisce il cibo di Daniela alla tradizione dei sediai di Grosso
“Variegato” è l’arredo, dove ogni elemento sa raccontare una storia, se si ha la pazienza di ascoltare. Per esempio i tavoli, le sedie, il bancone, così come il dehor per le consumazioni all’aperto, li ha costruiti il papà di Daniela, falegname da generazioni che nonostante la pensione «non riesce proprio a stare fermo con le mani»: in fondo, Grosso era il paese dei sediai fino a cinquant’anni fa e se nasci, vivi e respiri la bottega, non puoi scrollartela di dosso come fosse un granellino di polvere. Anche le tovagliette con il logo vengono dalla mano creativa di un’amica grafica; o il macina pepe di legno della nonna, che fa bella mostra di sé sul ripiano del buffet, insieme a piatti e piattini, tazzine, brocche e bicchieri d’antan, ereditati dalla credenza di qualche vecchia zia, magari zitella, che ha curato e accudito la “dote” di famiglia come templi della memoria, e che qui possono riprender vita e magari cambiare uso.
Infine “variopinto”, perché basta guardare le fotografie realizzate da Daniela, con il suo cellulare e postate su Instagram, per rendersi conto del tripudio di colori e cromìe che riesce a creare in ogni suo piatto. Questo, ammette Daniela, è l’aspetto che ama di più del suo lavoro: ogni giorno variare, decidere, comporre la sua tavolozza, prendere differenti culture gastronomiche e mescolarle, azzardando, giocando. Piccoli tableau da assaporare con gli occhi, il naso e la bocca. Nomen omen, appunto.
0 commenti