Premio Calvino: il verdetto della giuria
Con Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli, Francesca Valente si è aggiudicata il premio Calvino, con un verdetto raggiunto all’unanimità. Giunto alla trentaquattresima edizione, il prestigioso premio nato a Torino, è dedicato ad autori esordienti e inediti e quest’anno la giuria un romanzo definito “un testo letterario dalla struttura originale che mescola documentazione e invenzione in un progetto di notevole consapevolezza”. In esso vengono infatti ricostruite l’atmosfera e le storie di chi popolò nei primi anni 80 il reparto psichiatrico, “repartino” aperto dell’ospedale Mauriziano di Torino, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia.
L’autrice, Francesca Valente, racconta così l’opera e la sua genesi, «con una struttura congeniale al mio modo di lavorare, che mescola i generi e cerca di trovare forme ibride e fluide» tra ricostruzione storica e immaginazione.
Francesca Valente, intervista alla vincitrice del Premio Calvino
Qual è stato il percorso che ti ha portato alla scrittura?
«Compongo da quando sono piccola, ho iniziato con le poesiole, era più quello il mio mondo. Ho sempre scritto, anche racconti e forme brevi, ma non ho mai pensato di articolare un romanzo vero e proprio come quelli che tanto amavo da ragazza. Poi la scrittura è diventato il mio mestiere. Ho iniziato come traduttrice editoriale, dove è importante saper scrivere bene, e questo mi ha permesso un lunghissimo esercizio prima di mettermi a produrre qualcosa di mio. Infine, più di sette anni fa ho iniziato a lavorare per un’agenzia di pubblicità, attività che mi ha insegnato a riassumere, a far convergere in una sola immagine qualcosa di molto complesso che non può essere raccontato interamente. Credo che anche questo sia stato un esercizio che è venuto fuori nella scrittura delle mie cose, come in questo libro, che contiene anche accenni lirici, come un ritorno alla poesia. Ho fatto convergere in pochissimo qualcosa che non avrei saputo o non avrebbe avuto senso dire con troppe parole».
Il romanzo, a prima vista, sembra un insieme di racconti, è corretto?
«Sì, io lo racconto così ma ognuno dà una versione diversa. Sono storie indipendenti con alcuni personaggi chiave che ritornano in vari racconti. Si collocano sotto un’unica cornice, dalla quale è nato tutto, per raccontare dei pazienti psichiatrici passati per il “repartino aperto spdc “(Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) dell’ospedale Mauriziano di Torino. Tutte le vicende descrivono questi individui ipotetici, che originano da elementi di realtà in cui mi sono imbattuta ma sono un’invenzione, ispirata da due ambiti: uno è stato un lavoro di restituzione di memoria e ricordi di uno psichiatra che lavorò dal 1980 al 1984 nel reparto, Luciano Sorrentino, un amico di mia sorella Tiziana, attiva in Psichiatria democratica quando lui è stato presidente della onlus Psichiatria democratica europea. Si era portato a casa legittimamente dall’esperienza dell’spdc dei quadernacci che gli infermieri tenevano per propria iniziativa. Questi documenti che costituiscono l’altra fonte, non erano istituzionali, ma quadernoni informali su cui appuntavano quanto succedeva nei repartini. Racconti belli e terribili, sono uno spaccato di realtà mai stato raccontato prima in quei termini. Emerge una grandissima umanità da questi appunti».
Quindi una struttura frammentata al posto di un romanzo lineare, come mai questa scelta?
«Non aveva alcun senso far diventare un romanzo ben strutturato, costruito, la materia che avevo tra le mani. Era fondamentale mantenermi su un confine sottilissimo tra realtà e invenzione, perché queste storie nascono da aneddoti realmente accaduti, ad esempio l’arrivo del Papa a Torino. Da questi elementi ho costruito tanti frammenti che non avrei potuto elaborare in modo diverso. Ho scelto questa forma frammentaria perché volevo che da un lato riproducesse quella dei rapportini, dall’altro che fosse in perfetta sintonia con il modo in cui procede la memoria. Il malato psichiatrico in molti casi osserva e ricostruisce a modo suo la realtà, in un continuo alternarsi di piani di vita reale e immaginazione e per me era l’unica forma possibile, curiosa e non tradizionale, però storie così dovevano rimanere come dei quadri.
Perché ti sei soffermata proprio su questo soggetto?
«Il tema della “follia” e di come la mente funziona, mi ha sempre interessata, fin da quando ero ragazzina. Mi sento a casa con questi argomenti ed è anche la ragione per cui Sorrentino venne da me e mi disse “prova a farci qualcosa con questi oggetti e anche con i miei ricordi”, aveva tanta voglia di raccontare e io di ascoltare. Ho anche altri amici psichiatri con cui ho chiacchierato prima, durante e dopo il libro. Quindi certamente il mondo della follia è sempre stato presente in me insieme a quello della memoria. Due mondi perfetti che mi ossessionano e in questo romanzo si sono incontrati».
Oltre ai ricordi a cui hai avuto accesso, come ti sei aiutata a ricostruire questa realtà in modo realistico?
«Innanzitutto, ho mescolato esperienze personali, tutto ciò che sapevo e che mi ha costruito come persona, e si vede nel racconto. C’è stata poi una ricerca storica anche se io non sono una storica o una sociologa, psicologa o psichiatra. Certamente ho letto, non tanta letteratura manicomiale, però moltissimo sul periodo negli anni ‘50 fino agli ‘80 sulla città di Torino. Era importante cercare di essere più fedele possibile a quell’epoca. E poi molti saggi e testi sulla psichiatria, prima e dopo la Legge 180 che avevo iniziato a leggere già da ragazza per interesse personale. Fondamentali anche gli scritti di Basaglia».
Puoi parlare un po’ dei personaggi, soprattutto quelli che ritornano da un racconto all’altro?
«Questi personaggi sono menzionati con il loro nome reale. Luciano Sorrentino, lo psichiatra, non voleva neanche apparire troppo, ma c’è un capitolo dedicato a lui, molto più storico. C’è poi il suo braccio destro ai tempi del reparto, l’infermiere Emilio Tornior. Oppure un attore, realmente esistito, che fu paziente di Sorrentino e negli anni in cui iniziò al loro relazione clinica incontrò un regista torinese, Daniele Segre, che lo coinvolse in due film molto importanti. Grazie a questa rete che fu costruita intorno a lui da queste due persone, sostanzialmente ritornò alla vita. Se non ci fosse stata la Legge 180 sarebbe tornato in manicomio, perché sappiamo che un passaggio ce lo fece. Quindi è il simbolo di una possibilità, l’espressione di un successo della riforma basagliana. Avevo anche pensato di creare una figura fittizia ma non avrebbe avuto alcun senso farlo, era lui, non si poteva parlare di qualcun altro».
Chi può essere il lettore ideale di questo libro?
«Mentre scrivevo, non ho pensato più di tanto al lettore, ma solo alle persone a cui stavo dando una voce. Tuttavia il comitato del Calvino è volutamente eterogeneo, formato da oltre 60 persone di tutte le età, provenienze e formazione e ci sono tantissimi giovani oltre a lettori con più esperienza, magari ultrasettantenni. Mi è stato detto essere apprezzato da tutti come testo; dai ragazzi perché non conoscevano questo mondo e hanno così imparato qualcosa, dalle persone con più esperienza perché si riconoscevano un vissuto storico attraverso cui sono passate. Queste tematiche, come il discorso sul disagio mentale, sono percepite come molto attuali. Così io credo che, se venisse pubblicato, questo libro potrebbe avere un bacino molto vasto, può essere letto da chiunque, anche da lettori che amano generi molto diversi in quanto non si identifica con uno soltanto».
Per quanto riguarda il titolo, l’idea è arrivata all’inizio o dopo aver scritto il romanzo?
«Come spesso mi succede in quello che scrivo, il titolo viene prima e poi difficilmente lo cambio. In questo caso, se verrà pubblicato penso e spero di non cambiarlo. È fondamentale quel titolo lì. “Altro nulla da segnalare” è nato perché, leggendo gli appunti menzionati prima, spesso ritornava questa formula e mi sembrava molto significativa, più di qualsiasi altro titolo. Nel reparto c’era tutto un mondo di cose che accadevano ma alla fine del rapporto scrivevano “non ho altro da segnalare”. Credo che racconti bene la complessità e confusione di quel momento, la difficoltà di incasellarlo. Questa forma mi è sembrata geniale, esprime il succo di cosa ci fosse nella testa degli infermieri.
“Storie di uccelli” invece è venuto dopo. L’immagine degli uccelli era ricorrente e sto scoprendo ancora adesso di parlare di uccelli in altri capitoli in cui non me ne ero nemmeno accorta. Ad un certo punto ho capito di star raccontando questo. Io stessa mi aggiungevo a questi esseri umani, creature superiori come gli uccelli, come diceva Battiato “cambiano le prospettive al mondo”, se solo sappiamo osservare e ascoltare. Siccome tale immagine in volo era ovunque, spero che anche questa parte non venga cambiata, perché sono molto affezionata al titolo».
Quanto di tuo personale biografico si può trovare in “Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli”?
«Non lo so… sicuramente ci sono dei particolari autobiografici. Sono risalita anche ad alcune storie familiari che potevano rappresentare buoni esempi per le storie dei pazienti. Nelle storie biografiche di ognuno di noi si celano segni di follia più o meno espressi e quindi anche io ho attinto da piccoli aneddoti di famiglia in cui ho trovato l’origine di storie possibili degli altri esseri umani. Quindi qua e là viene fuori anche il mio vissuto, poco, ma credo che in qualsiasi cosa si scriva ci sia un goccio di sé, sembra una banalità dirlo ma…»
Con questo libro cosa vuoi lasciare a chi lo leggerà, dal punto di vista narrativo o emotivo?
«La cosa che mi premeva di più era che queste persone trovassero una voce, riemergessero e dicessero qualcosa di sé stesse, anche perché molti non avevano più famiglia ed era molto importante farle uscire da questo oblio. Cosa fondamentale era anche restituire a chi ha fatto la rivoluzione psichiatrica tutto ciò che è loro dovuto, quindi riconoscimento, quindi anche una fiducia che oggi si va dimenticando. Era necessario ripercorrere queste memorie perché oggi non si osasse mettere in discussione la Legge 180 e non si rinnegasse in alcun modo, come invece si cerca di fare, con l’eredità culturale di Basaglia che è immensa. È la riforma più straordinaria che sia mai stata fatta eppure c’è sempre una voce contraria. Credo che molti non disdegnerebbero il ritorno dei manicomi, quindi bisogna parlarne soprattutto con i più giovani perché prendano coscienza. Forse queste storie raccontate in modo così semplice possono essere un buon modo per avvicinarsi a qualcosa che di incomprensibile che si pensa riguardi solo qualcun altro. Invece riguarda tutti. E poi mi premeva molto che queste persone venissero raccontate non sempre come animali strani da guardare come dentro uno zoo, creature mostruose come alcuna letteratura recente sta facendo ed è una cosa che mi fa inorridire. Vorrei che queste finestre che ho aperto sulle storie di altre persone non facessero sentire il lettore un voyeur che pensa “che strane queste figure, che begli animali preziosi e rari…” no, avesse voglia di entrare in quelle case dove loro abitano e sentisse di esserne parte. Questo spero che sia venuto fuori e vorrei lasciare».
Sai già quando potremo leggerlo e presso quale editore verrà pubblicato?
«Al momento non si sa ancora. Proprio in questi giorni stiamo valutando con il preziosissimo Premio Calvino, fatto da persone straordinarie, e proprio a giorni si capirà qualcosa di più. Io spero che il prossimo anno si possa leggere».
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