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Sono sempre più numerose le famiglie che ricorrono ad un aiuto psicologico per i propri figli duramente provati da un anno difficile, tra ansia, paura e depressione

SCUOLA, IL DISAGIO DEI RAGAZZI IN TEMPO DI PANDEMIA

Nuove ansie e timori nelle diverse età scolastiche

Dall’inizio della pandemia è ormai passato più di un anno. È ricominciato il secondo giro di un ciclo assurdo, incerto, imprevedibile. La diverse regioni entrano, escono e rientrano in regimi di isolamento parziale e la scuola continua ad alternare fasi di didattica in presenza a fasi di insegnamento a distanza. E anche in questo periodo in cui le scuole – almeno le primarie e le secondarie di primo grado – hanno ripreso la piena attività in presenza, persiste ugualmente la probabilità di ricorrere a periodi di didattica a distanza, tra intere classi messe in quarantena o periodi di isolamento che i bambini devono rispettare magari per la positività dei familiari al virus.

Questa instabilità della didattica, che va ad unirsi ad una preoccupazione per la situazione pandemica generalizzata, sta mostrando degli effetti negativi negli stati d’animo dei bambini e dei ragazzi che la scuola la frequentano o almeno la seguono. Ansia, preoccupazione, disagio anche fisico accompagnano in certi casi il rientro in aula per alcuni; solitudine e depressione tormentano invece altri.

Ogni età e quindi ogni fase dello sviluppo sembrerebbero caratterizzarsi, salvo eccezioni, per tendenze e situazioni ricorrenti.
Per spiegare che cosa succede nella mente di molti bambini e ragazzi, si è così rivelato utile per le famiglie il ricorso ad un aiuto psicologico. Diversi sono i professionisti ad occuparsi di specifiche età e a notare come, non difficile da sospettare, qualche problema ci sia. L’associazione Tiarè ad esempio, ha sede a Torino e opera su diversi aspetti ma in particolare si occupa di comunità terapeutiche per minori. I professionisti che ne fanno parte hanno a che fare con ragazzi e bambini di età diverse. Ci siamo confrontati con loro e abbiamo avuto conferma delle preoccupanti tendenze sopra descritte.

Che cosa succede agli alunni più piccoli

In tempi normali ad alcuni bambini piace andare a scuola, ad altri meno, ma dopo una prima fase di difficile separazione dai genitori più o meno tutti si convincono che è necessario, che a scuola bisogna andare, che una manciata di ore lontani da mamma e papà non sono poi così terribili. Ma che cosa succede da quando la scuola è diventata un luogo di potenziale pericolo e contagio? Sembra che i bambini che frequentano la scuola primaria, tra tutti, siano soggetti alle reazioni più critiche. Trattandosi di una fascia d’età in cui è ancora forte l’attaccamento alle figure genitoriali, il primo stop delle lezioni avrebbe fatto rientrare i piccoli alunni in una zona di comfort, domestica e casalinga.

La dottoressa Gaia de Campora, docente a contratto dell’Università degli studi di Torino e psicologa in Tiarè, ha a che fare con la prima età scolare: «Il rientro a scuola da parte loro è desiderato dal punto di vista affettivo e sociale, ma è critico il successivo ritorno alla routine scolastica e la separazione dalle figure di accudimento, quelle grazie alle quali trovano una rassicurazione di fronte alle paure».

Non tutti allora vorrebbero un ritorno immediato a scuola, come invece è potuto trasparire dalle proteste dei ragazzi più grandi. «I bambini con i quali lavoro – continua la dottoressa de Campora – riportano le stesse preoccupazioni dei genitori, che sono lo “strumento” attraverso cui capire che cosa sta succedendo. È difficile comprendere la dimensione della pandemia a livello mondiale e il pericolo è misurato attraverso ciò che è direttamente pericoloso per loro».

I sintomi di questi timori emergono soprattutto attraverso disturbi del sonno, dovuti in parte ai cambiamenti dei ritmi quotidiani: la sveglia suona più tardi e spesso si resta tutto il giorno in pigiama. In più, andare a dormire rappresenta un’ulteriore separazione che riattiva nel bambino una reazione simile a quella del recarsi a scuola. Meno grave dal punto di vista della sofferenza, ma con ricadute sull’apprendimento, è il calo dell’attenzione e la soglia di affaticamento dei bambini, che seppur tenuti insieme da una piattaforma come classe, nei fatti sono costretti ad imparare individualmente.

Nonostante la difficoltà e il fatto che ogni bambino abbia una sensibilità propria e soggettiva, è possibile provare a seguire qualche consiglio: «Una routine strutturata durante la giornata è più rassicurante – spiega la dottoressa de Campora – Sapendo che cosa succederà nel giorno e nella settimana il bambino riuscirà a orientarsi meglio. Inoltre è utile rendere accessibile per loro un dialogo sulle paure. Quella degli otto anni ad esempio è una fascia evolutiva in cui il significato della morte all’interno del ciclo vitale entra nello scenario mentale e soprattutto quest’anno è un tema inevitabile. Tanto più una paura è indicibile, un tabù, tanto più tende a crescere. Meglio invece dare significato a ciò che il bambino dice, restargli vicino nel dialogo concreto».

Le esigenze degli adolescenti della scuola media

Un anno di didattica a distanza e lockdown a intermittenza hanno ostacolato nei ragazzi il contatto con le realtà di socializzazione: la scuola, ma anche tutte le attività extrascolastiche come lo sport, la musica, gli scout e i diversi hobby. Sono attività fondamentali e necessarie per i giovani adolescenti, i ragazzi che frequentano le scuole medie. Si tratta di un’età chiave del percorso evolutivo, in cui formare la propria competenza emotiva e relazionale. Lo spostamento dei rapporti interpersonali in una dimensione virtuale, meno efficace sul piano della creazione dell’empatia, rischia così di far emergere carenze relazionali.

Il dottor Luca Ortolan, psicoterapeuta e vicepresidente dell’associazione Tiarè, si occupa principalmente della fascia di minori che inizia dagli 11 anni: «In questo caso ciò che preoccupa è il crescente divario tra le condizioni di normalità e agio e le situazioni in cui la famiglia come agenzia educativa manca o è carente. Il problema maggiore non è tanto la didattica a distanza, in quanto non si verifica un minor apprendimento che dal mio punto di vista è un aspetto relativo, quanto più una mancanza di agenzie sociali con cui il minore era prima sostenuto nel processo di formazione verso l’età adulta. Resta in questo modo solo la famiglia come spazio di relazione e le criticità sussistono per i nuclei più “fragili” che prima potevano contare sull’appoggio delle altre realtà, come appunto la scuola. Alcuni ragazzi ricevono un pasto decente solo se vanno a scuola. Ecco perché l’apprendimento non è l’unico problema».

Che cosa fare in questi casi? «Il consiglio che mi sento di dare – spiega il dottor Ortolan – è di prestare molta attenzione alle richieste silenziose dei nostri figli. Alcune difficoltà presenti in loro sono più facili da riconoscere quando presentano sintomi, come rabbia e incompatibilità in famiglia, dipendenze. Ma i bisogni silenziosi sono più subdoli e si manifestano con depressione, deprivazione relazionale, permanenza di ore chiusi in camera davanti al computer, tutti aspetti che sembrano consoni alle condizioni del momento. Il rischio è di non vedere cosa si nasconda in questi comportamenti, e cioè un disagio importante».

In aumento anche i sintomi ansiosi, collegati non tanto al pericolo di un eventuale contagio, quanto al fatto che gli individui a quest’età si sentono derubati di un tempo prezioso che non tornerà più, in cui sperimentare amori e altre situazioni della vita che si manifestano qui con forme uniche e particolari, ma c’è anche incertezza rispetto al futuro. In generale, il ritorno a scuola, salvo casistiche singolari e critiche, è fortemente auspicato dai giovani adolescenti, nonostante il necessario sforzo iniziale per riattivare le dinamiche interpersonali.

Uno sguardo sulle scuole superiori

Emotivamente più maturi, ma non privi di criticità – e chi lo è in questo momento? – i ragazzi più grandi che frequentano l’ultimo ciclo di scuola dell’obbligo. È importante non perdere di vista nemmeno loro. La dottoressa Silvia Ferreri lavora come psicologa in un istituto tecnico di Torino. Secondo la sua esperienza degli ultimi mesi, è sorprendente come in effetti alcuni dei ragazzi con cui ha potuto di parlare dichiarino di vedere nella didattica a distanza anche degli aspetti positivi, tra tutti la comodità. In realtà è il sintomo di una subentrata passività e progressiva chiusura, tipiche di chi passa gran parte della giornata sempre fra le stesse quattro mura. Scavando poco più nel profondo, emergono le preoccupazioni: «I ragazzi si trovano in difficoltà – spiega la dottoressa Ferreri – Sono isolati, alcuni si sentono soli. Le classi che riscontrano maggiori difficoltà sono le prime, che, trovatesi in un ambiente nuovo, non hanno avuto la possibilità di ambientarsi e di creare un gruppo. E ovviamente le classi quinte, che dovranno affrontare l’esame di maturità, temono che il loro diploma possa valere di meno rispetto agli altri anni».

Si riscontra, dunque, un umore generalmente più depresso, che dietro ad uno schermo di didattica a distanza, o durante un incontro con un professionista che fornisca un servizio d’ascolto, sfugge facilmente in tutta la sua complessità. «In una situazione di normalità – aggiunge la dottoressa Ferreri – i ragazzi più fragili avrebbero forse resistito, ma allo stato attuale delle cose, sono proprio loro ad esplodere e ricadere, nei casi più gravi, anche in episodi di autolesionismo. È importante che si impegnino a far sentire la propria voce in questo momento, anche se non è facile».

Difficile dare consigli concreti in un periodo delicato come quello fotografato da queste testimonianze. Ma fino a quando non tornerà una parvenza di normalità, l’unica soluzione adatta a tamponare le ferite morali di questi ragazzi è la vicinanza della famiglia, senza esitare a chiedere un aiuto quando se ne ha bisogno, oggi come sempre.

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