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PONTE DEL DIAVOLO, DIABOLICA MAGIA

Dice il diavolo del ponte che il suo ponte – il Ponte del Diavolo – esiste da sempre e sempre esisterà. Diavolo d’un ponte!

La giornata è tetra, all’imbocco delle Valli di Lanzo. È un giorno di inizio febbraio di qualche anno fa. La neve evapora sullo sfondo e le montagne sono ingoiate dalla nebbia che si gonfia come il collo di un pitone. Ieri era inverno, al Ponte del Diavolo, e domani sarà primavera ma oggi non è stagione, non è giornata. Il cielo è così basso che si appiccica alle spalle, il sentiero grondante d’acqua da sembrare un ruscello e le rocce sudano umori che ingrassano l’aria. È il giorno grigio che tutto confonde, il giorno che invita alla vita purché da un’altra parte. Oggi al Ponte del Diavolo non c’è la vita che cerca chi nei pomeriggi di festa percorre la mulattiera per vedere un monumento. Oggi non c’è la vita che il Comune ha portato lastricando il sentiero e piantando cartelli.

Respiri fradici al Ponte del Diavolo

Oggi al Ponte del Diavolo c’è la vita che negli altri giorni dorme, la vita degli alberi, dell’acqua, delle rocce e del loro respiro in frenetico affanno. Il nastro di pietra e cemento che copre la via è a disagio, in balia del soffio vitale che lo spinge da sotto, e si alza e s’abbassa seguendo il respiro tra colpi di tosse improvvisi e la voce che si schiarisce, mentre sopra scorre la neve che si scioglie.

Gli umori s’impastano e le opere umane sporche e risibili sono inghiottite dall’alito che emana dai pendii, masticate e risputate malconce. Saranno ancora lì, quando torneranno i turisti e il Ponte del Diavolo e la sua corte fingeranno di dormire, prestando il profilo alle foto stanche degli smartphone e il suolo umido alle cartacce. Ma saranno – le opere umane piantate per spiegare il Ponte del Diavolo – arruffate, intontite, spaventate dalla vita che non è per gli uomini. E i cartelli racconteranno con le loro parole frammenti di storia e aneddoti leggendari, strappando sorrisi sufficienti e distratti di stivali vistosi e domande di bambini petulanti.

Vorrebbero raccontarla, la vera storia del Ponte del Diavolo e della sua corte, ma non possono, minacciati come sono dal respiro vitale che deve salvare se stesso. Si presta alla farsa e non può disvelarsi, la vera natura, pena la morte. Ma oggi no, oggi non ha paura, in un giorno da lupi, con il fiato che cade sotto il peso dell’aria e s’amalgama a quello della terra.

Curiose presenze

Giri la svolta e il Ponte del Diavolo, nero, si staglia sulla nebbia separando l’urlo roco e mutevole dello Stura a monte dallo specchio grigio-verde-nero del tratto a valle, dove l’acqua scorre indaffarata ma ordinata.

Non c’è anima viva, però ti senti osservato. Ti guardi attorno: nessuno. Eppure qualcuno o qualcosa ti pianta gli occhi addosso fendendo l’aria spessa come l’acqua che sta dilavando il terreno. Va bene l’immaginazione ma adesso esageri: non c’è nessuno!

E invece sì, qualcuno c’è, lì al Ponte del Diavolo. Alzi gli occhi verso la nebbia, sulle rocce, una decina di metri più su. Una capra, bianca e paffuta con il muso vecchio. Ti fissa, sembra finta tanto è immobile e avvitata al suolo tanto è ripido il pendio. La chiami, ferma. Fingi di tirarle qualcosa, ferma. Prosegui per un tratto lungo la mulattiera e lei continua a fissare il punto dove stavi prima. Guardi più su: ce ne sono altre tre, una nera, una caffellatte e un’altra bianca, anche loro immobili, in posizioni plastiche e diverse. La mente degli uomini non ti stupisce più da tempo e arrivi a pensare che siano quattro animali finti piantati lassù per i turisti, come i peluche a grandezza naturale che intrattengono i bambini negli atri dei centri commerciali. Un parco di finti divertimenti al Ponte del Diavolo, mentre le offerte commerciali occhieggiano subdole nei giorni di festa? Il solo pensiero ti nausea, ma la prima capra ti salva, muove la barba beffarda e gira il muso vecchio. Meno male. La lasci lì e prosegui, fino al ponte.

Saranno le pietre scivolose ma la schiena d’asino del Ponte del Diavolo sembra più ripida, oggi. Come se i fianchi del Basso e del Buriasco, respirando a pieni polmoni, restringessero la gola e il ponte elastico ne seguisse il movimento proiettandosi verso l’alto. Superi la porta degli appestati e arrivi al colmo. Il cielo basso impastato di nuvole e nebbia non si lascia guardare tanto è bianco e abbagliante, ma non proietta luce intorno e l’acqua è nera come i fianchi dei monti.

«Vieni a vederlo da qua sotto, il ponte». Una voce chiara e sonora ma sussurrata come se nessun altro potesse sentire ti fa sobbalzare, come se arrivasse dalle rocce, dall’aria o dagli alberi neri e marci di pioggia. Ti volti di scatto a cercare le capre: sono sempre là, immobili, un centinaio di metri a valle, dove le avevi lasciate. «Non badare alle capre, quelle non parlano. Sono secoli che mi dipingono come fossi una capra e la cosa, ti dirò, mi disturba assai».

Il cielo si fa coperta

Non è la voce delle capre, per fortuna. È la voce dell’acqua, viene da sotto il ponte, mentre le nuvole ormai si sono abbassate al punto da sfiorare lo scheletro della porta senza più battenti. Ti sporgi, guardi giù e ti sembra di specchiarti nell’acqua nera, ma non sei tu. Ti sbracci e la figura nell’acqua si sbraccia con te, ma non sei tu. Pare – quella figura riflessa – seduta sulla spalletta del ponte ma capovolta, a testa in giù, sfidando ogni legge dell’ottica e della fisica.

«Vieni giù – incalza – Mica ti devi buttare! C’è il sentiero, scendi e capirai». Grazie, preferisco capire da qui.

Il cielo sul Ponte del Diavolo si fa sempre più pesante, ora inghiotte la porta e si adagia sul ponte come una coperta di lana grigia ruvida e pesante. Azzerato il mondo di sopra, non resta che quello di sotto. La figura riflessa è ancora lì, ha modi gentili ma le sue sembianze mutano ad ogni istante, si fanno rassicuranti allegre comiche grottesche serie severe cattive arcigne spaventose fino a dissolversi nell’acqua nera e i fianchi del monte paiono rinchiudersi sul ponte che ne accompagna il movimento restringendosi e innalzandosi fino a divenire una guglia aguzza. Poi la figura riappare, rassicurante, i monti si allontanano e il giro ricomincia.

Lontano, verso valle, qualche auto scorre sul ponte nuovo, un obbrobrio alla vista, è quasi meglio la figura diabolica riflessa. L’acqua urla il suo scroscio costante, la figura le parla sopra e le voci si accordano fino a sembrare un unico suono. La voce del Ponte del Diavolo.

«Io ho scelto la parte di sotto», attacca la voce acquosa. «Non mi hanno cacciato, sono io che ho scelto».

Il monologo della voce

«Da che mondo è mondo io costruisco ponti per legare gli uomini fra loro e quindi dividerli. Da che mondo è mondo io poso pietre per separare il sopra dal sotto. Da che mondo è mondo io getto passerelle dove mano d’uomo non ardirebbe posarsi. Credono di liquidarmi con una beffa, regalandomi l’anima di un cane, di un gatto o di un porco. Credono di cacciarmi e ridono di me figurandomi gonzo. Ma io ci sono, la parte sotto il ponte è la mia».

Il borbottio del torrente riecheggia respinto dalla coperta del cielo e rimbalza fra le rocce e le marmitte. Le nuvole corrono a pelo degli alberi stanchi di pioggia e subito la voce ricomincia confondendosi con l’acqua.

«Mille volte avrei potuto distruggere il ponte e mille volte ricostruirlo. Fui io a difenderlo dall’invidia delle masche alleatesi contro di me, le inondai di fetori mefitici e di figure orribili alla vista e al mio cospetto trasalirono e filarono via. Ma gli uomini no, voi ci sguazzate, nei fetori mefitici, e non avete paura di me. Vi atterrite di fronte a forme vuote, ma non guardate nel cuore, né del bene né del male. E così per dividervi io sono costretto a gettare ponti. Sono lo strumento migliore per dividere, i ponti. Spaccano l’orizzonte, chiudono le valli illudendo la vista con le loro forme sinuose e, soprattutto, consentono agli uomini di incontrarsi, conoscersi, disprezzarsi. Trasformano le fiabe in realtà. Se vuoi separare gli uomini, falli incontrare. Il resto lo faranno da soli».

Finalmente la voce tace, la coperta si alza, l’acqua nera si fa verde. I monti pulsano frenetici in un respiro affannoso, gli alberi si stirano preparandosi alla notte che incombe sul loro ponte, il Ponte del Diavolo.

Guardi giù, la figura riflessa è scomparsa. Poi a sinistra, su una roccia sopra la riva di sabbia e pietrisco: c’è una scritta, vergata di vernice, dev’essere lì già da qualche anno. Dice: “Terroni go home”. A breve distanza ce n’è un’altra: “Go home terroni”, a ribadire il vocativo.

Ripensi alla voce e torni sui tuoi passi, verso casa, il Ponte del Diavolo alle spalle. Arrivato alla svolta, guardi su: le capre sono ancora lì, due bianche, una nera e una caffellatte. In un’ora non si sono mosse di un millimetro.

La capra con il volto vecchio ti guarda per l’ultima volta. E sembra compatirti.

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