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IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI

Piazza Ceretta San Maurizio

Scritto da Andrea Strumia

1 Ottobre 2020

Era una piazza come tante, quella della frazione Ceretta di San Maurizio. Una vasta area ferma, silenziosa, pronta ad accogliere ma con indifferenza, come tutte le piazze delle frazioni e dei paesi della campagna piemontese. Sfinita dal sole in estate, sporca di pioggia in autunno, bianca di brina nelle mattine invernali. Accoglieva in silenzio, appunto.

Accoglieva il mercato ogni sabato, la benedizione dei trattori a Sant’Antonio, le auto in sosta per la messa della domenica, i borghigiani che si riforniscono alla casetta dell’acqua. L’ha sempre avuta in realtà una sua voce, la piazza di Ceretta, ma non la tirava mai fuori perché nessuno in fondo si aspetta di udire una voce da una piazza stanca come tante. Ci vai, su quella piazza come su tutte le piazze simili, perché devi fare qualcosa che cattura la tua attenzione o perché non devi fare proprio nulla se non lasciarci l’auto per un po’.

Ci voleva un’anima per aiutare il mondo a sentirla, la voce della piazza, un’anima che come un direttore d’orchestra improvvisato coordinasse tutte le voci di tutti gli elementi che formano la piazza. Il fruscio dell’erba alta nel campo di calcio accarezzato dal vento o il profumo acre di quella stessa erba appena tagliata, una nota acuta che spacca l’aria. O il battere dei tacchi della casetta dell’acqua obbediente, che spara il suo getto d’acqua a comando senza badare chi sia a intimare l’ordine, una donna che riempie bottiglie di vetro o semplicemente un impulso temporizzato per evitare il proliferare di batteri: un soldatino di latta caricato a molla ingenuamente felice del suo destino in loop. O le urla dei bambini della scuola, poco distante, presto coperte dalle auto cariche di quegli stessi bambini, di zaini, di domande, di troppe cose da fare una volta a casa. O il cicaleccio della ruota libera delle biciclette che si accostano alla casetta dell’acqua per riempire le borracce e poi lo scatto dei tacchetti sui pedali quando ripartono per spingersi su, verso le montagne.

Ci voleva un’anima che fosse anche direttore d’orchestra, per dare un senso a tutte quelle voci e aiutare il mondo a sentire la melodia dell’unica voce che insieme compongono. Il fruscio dell’erba, l’odore acre del fieno, il soldatino di latta, la ruota libera delle biciclette, la ninnananna delle montagne sullo sfondo mentre ogni sera si spegne il loro profilo dopo il tramonto. Non era necessario un direttore d’orchestra diplomato al Conservatorio. È bastato, più semplicemente, un direttore libero. Perché solo la libertà dell’anima, anche della più afflitta e tormentata, permette di dare un senso ad ogni voce e di trarne una melodia che racconta una verità.

Non importa quale, purché sia una verità. La nostra, quella della piazza, quella della gente che passava e che all’inizio scuoteva la testa infastidita e poi ha incominciato a fermarsi e scambiare due chiacchiere e poi a portare un piatto, poi due, poi il tempo da condividere. Il tempo, ecco quello che insegna la musica, la giusta combinazione di voci e di silenzi, di suoni e di pause, il tutto intriso di emozioni che d’improvviso ne infrangono l’ordine matematico facendo esplodere la poesia. E la poesia è tutto ciò che quella melodia ha da dire, un fluire impetuoso di voci tutte diverse da prima, squadre di soldatini di latta, vento tagliato dall’erba alta o intriso di profumo, biciclette auto bambini mercato. E tante storie che dalla piazza hanno incominciato a diramarsi per la frazione, un po’ vere, un po’ delicatamente falsate da chi le riportava, un po’ intrise da qualche bellissima panzana che il direttore dell’orchestra raccontava ai ragazzi.

Probabilmente qualcuno, sicuramente chi scrive, passando si sarà chiesto chissà se la gente sarebbe stata così gioviale se quel direttore avesse avuto la pelle scura e un nome straniero. Probabilmente qualcuno, sicuramente chi scrive, si sarà poi vergognato per averlo pensato ed è stata la voce stessa della piazza a farglielo capire. Perché sì, la gente sarebbe stata gioviale allo stesso modo. Magari ci avrebbe messo un po’ di tempo in più, ma alla fine sarebbe rimasta incantata lo stesso da quella incomprensibile, sporca, stonata eppure perfetta melodia che nasce quando le voci più diverse sono coordinate da un direttore d’orchestra libero perché cerca la libertà.

Una melodia che ha taciuto solamente per un istante, quando il suo inconsapevole artefice è stato portato via, dopo essersi congedato dalla vita nel sonno di una notte ancora troppo tiepida per fare paura. Mescolando così la sua anima alla piazza, per sempre.

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