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La triste storia dell'Ipca

SOPRATTUTTO PERCHE’ FA MALE

Ipca – Industria piemontese dei colori di anilina

Scritto da Andrea Strumia

18 Settembre 2020

È come se l’acqua di quella bialera fosse sempre la stessa. Come se, arrivata alla fine del percorso in un punto imprecisato poco più a valle, tornasse alla fonte per ripercorrere lo stesso tratto e raccontare sempre la stessa storia, un po’ come i ruscelli dei presepi meccanici. È un eterno ritorno, quella voce, mentre la storia che racconta pare sì sempre la stessa, ma in realtà vi si aggiungono particolari sempre nuovi, voci ricordi sensazioni emozioni paure che si sprigionano costantemente dal corso d’acqua.

L’avete mai ascoltata, la voce di un luogo? Certo che sì e magari ci avete anche parlato, con un luogo, forse senza accorgervene. Perché quasi ogni luogo ha un’anima, così come ne ha una quasi ogni creatura. Può essere che l’abbiate scambiata, quella voce, per il frutto di una suggestione o della vostra immaginazione, in realtà la maggior parte dei luoghi ha qualcosa da dire, proprio come la maggior parte delle persone. Basta ascoltarli. La bialera che parla è quella che scorre in località Borche, a Ciriè, e fiancheggia il sito industriale delle ex Ipca ed ex Interchim.

È piena la bialera in queste settimane piovose d’autunno, scorre determinata ma non tumultuosa e la sua voce è maledettamente vivace nella sua gravità: non è un’eco remota che genera malinconia, ma una parlata decisa che racconta spietata e senza sosta. Accompagna il passante senza imporsi ma lo cattura con un racconto a cui nessuno può sottrarsi, perché è parte di chiunque, quella storia. È come un lucido racconto snocciolato all’infinito da un folle seduto sul bordo di una sedia mentre ondeggia il busto senza sosta avanti e indietro, gli occhi persi nel vuoto a catalogare immagini indelebili.

Parla di una fabbrica, la bialera delle Borche, ma le sue parole non sono una rievocazione di ciò che fu quella fabbrica né un riassunto delle vicende giudiziarie che alla fine, troppo alla fine, la resero nota. Sono piuttosto, le parole della roggia, un insieme accorato delle voci delle persone che in quella fabbrica hanno lavorato, di quelle che sono morte e di quelle che sono sopravvissute, dei loro familiari, dei giornalisti che ne hanno scritto, degli abitanti del posto che quella fabbrica vedevano e respiravano, e anche di medici, amministratori e persone che sapevano ma che alle parole, all’epoca, preferirono il silenzio.

Ipca è una parola che fa paura, da queste parti, sinonimo di una tragedia. Ma la bialera, il folle che racconta dondolandosi sul bordo della sedia, non la pronuncia mai. È la saggezza della natura e del luogo: non la pronuncia perché non esiste, perché quello che resta al di là della strada, sull’altro lato rispetto alla roggia, non è che uno scheletro. E anche la torre era poco più che un’impalcatura di ossa scarne: l’hanno tirata giù due mesi fa e sono venuti i giornalisti, ne hanno scritto, hanno fatto i video del crollo e li hanno postati su Facebook. Tutti a filmare e a guardare il nulla, lo sgretolarsi di ciò che torna alla polvere ma non esiste più da un pezzo.

Chissà se l’hanno ascoltata, invece, la voce della bialera e se hanno visualizzato le immagini che quella voce evoca incessantemente nel suo eterno ritorno. Altro che il nulla che cade! Avrebbero visto, nel racconto, gli occhi atterriti di chi in bagno scopriva di essere diventato uno dei pissabrut, quelli che dopo aver orinato per anni tutti i colori che respiravano durante il giorno ad un certo punto incominciavano a orinare un colore solo, il rosso, il sangue, ed era il segno della loro condanna.

E tante altre immagini si materializzano nel racconto incessante della roggia. Gli stracci che avvolgevano gli zoccoli degli operai, uniche “calzature” che resistevano alla corrosione degli acidi. Poi, continua la bialera nel suo dondolare folle e spietato, ve le ricordate le sindoni? Sì, le sindoni, le lenzuola stese ad asciugare ai balconi delle case dei lavoratori, con impresse le sagome di chi la notte ci dormiva e trasudava i colori che la pelle aveva assorbito durante il giorno. Potevano farsi il bagno più volte tutte le sere, gli operai, e si potevano strofinare all’infinito, quelle lenzuola, ma non c’era verso di eliminare quelle sagome, simboli involontari dello sfruttamento e del non senso.

All’improvviso, nel rincorrersi dell’acqua nella bialera, sulle sindoni prevalgono le voci degli operai che ad intervalli più o meno regolari e stabiliti dalla tenuta dei propri polmoni fuggivano fuori dai reparti e dai magazzini per prendere fiato, quel tanto che bastava a rientrare e resistere un altro po’. E ti volti di scatto, dalla parte opposta del canale, a guardare la fabbrica e pensi di vederli e di udirne le voci, i colpi di tosse, i conati di vomito.

In realtà vedi soltanto uno scheletro abbandonato, con quello che resta delle finestre spalancate come se anche i fantasmi avessero bisogno di aria pura e che prima o poi forse farà la fine della torre, ma poco importa perché già adesso non esiste più.

Scendi lungo la strada e la bialera continua a parlare, ti allontani e la senti in lontananza, sempre concitata, metodica e precisa nel suo racconto, come il folle sull’orlo della sedia, quello che ha visto l’orrore e non gli importa se non c’è nessuno ad ascoltarlo mentre lo racconta all’infinito, per non dimenticare, anche se fa male, soprattutto perché fa male.

L’Ipca – Industria piemontese dei colori di anilina – nacque nel 1922 e produceva pigmenti a base di ammine aromatiche. Si tratta di sostanze tossiche e cancerogene, la cui pericolosità era già scientificamente nota fin dalla fine dell’800. Durante la sua attività, la cosiddetta “fabbrica della morte” uccise almeno 168 lavoratori.
Le ripetute denunce degli operai sulla pericolosità delle condizioni di lavoro e sull’inosservanza delle più elementari norme di sicurezza caddero nel vuoto e gli anni passarono, fino a quando, nel 1968, la determinazione di due ex lavoratori, Albino Stella e Benito Franza, produsse una tale mole di informazioni e di materiale d’inchiesta da indurre le autorità giudiziarie ad interessarsi seriamente del caso, innescando all’inizio degli Anni Settanta – triste record – i primi processi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. Il processo Ipca si concluse nel 1977 con la condanna dei dirigenti dell’azienda per omicidio e lesioni colpose.

Questo articolo ha inaugurato la rubrica AnimaLòci sul numero cartaceo di Promuovere Persone Culture e Territori uscito nel dicembre 2019. Abbiamo scelto di ripubblicarlo per creare un filo conduttore tra il cartaceo e la versione online della nostra rivista. Nelle prossime settimane potrete leggere le nuove puntate di AnimaLòci.

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