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L'alpinista torinese innamorato delle nostre Valli. Una storia di passione e di vita, raccontata dal protagonista con la serenità di chi, nella montagna, trova la verità

BEPPE CASTELLI, IL BOCIA DEI MERAVIGLIOSI “PAZZI DEL CERVINO”

«Me ne sono capitate tante…». Comincia a raccontare Beppe Castelli. La semplicità disegnata sul volto e il sorriso ammiccante, in realtà, non lasciano immaginare una vita vissuta con tanta intensità. «Sono stato il più giovane alpinista ad arrampicare sulla parete Nord del Cervino e nessuno ha ancora superato il mio primato – racconta – Era il 1963, avevo 19 anni». Ricorda la sua impresa, quasi fosse del tutto normale scalare la Nord del Cervino a quell’età.

Beppe Castelli è ancora il più giovane scalatore della Nord del Cervino

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Un’immagine simbolo del giovanissimo Beppe Castelli, orgoglioso della sua impresa

Erano in quattro in quella spedizione: lui, Andrea Mellano, Romano Perego, Giovanni Brignolo. Lui era il “bocia”, il più giovane. Gli altri, poco più che ventenni. Partirono l’11 di agosto. Erano stati dati per dispersi. Una terribile tormenta di neve si era abbattuta in quei giorni, sulle pendici del Cervino. Si nutrivano poche speranze di ritrovare i ragazzi vivi. Eppure loro riuscirono ad affrontare la parete in condizioni estreme, con la tempesta di neve e ghiaccio che si accaniva contro. Delle quattro notti trascorse sul Cervino, una la passarono nella Capanna Solvay, ma le altre tre le trascorsero in parete, legati, perché non c’era abbastanza spazio, lungo il percorso, per poter bivaccare sdraiati o, almeno, seduti. In più, il vento impetuoso della tempesta aveva portato via cibo e sacchi a pelo. Nonostante le difficoltà riuscirono ad arrivare in cima, debilitati e molto stanchi. «Sulla vetta abbiamo fatto delle foto bellissime», commenta Beppe Castelli. Di tutta la fatica Beppe ricorda, più di ogni altra cosa, la felicità provata nel mettere piede sulla cima, ricorda la bellezza della montagna e le foto, scattate a testimonianza dell’impresa, definita al limite del possibile.  «Sul Cervino – continua Beppe – ci ho lasciato quasi tutte le dita dei piedi, congelate durante l’ascesa». Lo racconta come un incidente di percorso, ma secondo lui neanche tanto grave, infatti tiene a precisare che non ha mai avuto incidenti in montagna. Un’impresa al limite del possibile compiuta senza tanto farlo sapere in giro, per non correre il rischio di essere fermato. «Non dissi nulla a mia madre – afferma, come se avesse nascosto una semplice marachella – Nonostante le dita perse non ho smesso di arrampicare. Mi sono fatto preparare delle scarpe apposta, fatte su misura per i miei piedi».

Comincia a 14 anni, Beppe, a fare alpinismo. A 23 è il più giovane istruttore nazionale di alpinismo. Per 13 anni è stato istruttore di alpinismo alla scuola Gervasutti a Torino. Poi è passato alla Ribaldone, nelle valli di Lanzo. Compagno di cordata di Gianni Ribaldone, ricorda il momento del tragico incidente, in cui l’amico perse la vita. «Cadendo dalla parete passò accanto a me – ricorda – Lo vidi scivolare giù. Eravamo con allievi della scuola Gervasutti, aggrappati alle rocce del Monte Bianco, ma un errore fu fatale. Forse un allievo preso dalla paura si mosse sul terrazzino, cominciò a battere i piedi e lui, Gianni, perse l’equilibrio. Dopo i primi momenti di disperazione, dopo la tragedia, dovemmo tirarci su le maniche, tranquillizzare gli allievi e aiutarli a salire fino in cima. Non ci si poteva fermare, non ci si può fermare mai». La montagna è anche questo. Va trattata come una compagna di viaggio nel nostro fonderci con la natura, regala gioie ed emozioni, ma non se ne può dimenticare la potenza, la forza che domina sulla fragilità umana. «È in momenti come questi – ammette Beppe – che ti viene voglia di smettere. Eppure subito dopo si riprende, quasi in maniera incontrollabile, a sfidare la montagna, anche se ti ha portato via un amico o un allievo. È strano ma è proprio ritornando in montagna che io sono riuscito a superare il dolore». Beppe ha in mente anche un altro incidente mortale. «Ero istruttore nel gruppo esperti Alta Montagna. Persone già formate. Stavamo scendendo in corda doppia. Eravamo a circa 30 metri dal terreno. Ma un chiodo non tenne e saltò via nel momento in cui un ragazzo si diede la spinta all’indietro. Il ragazzo batté la schiena, sembrava si fermasse, invece andò oltre, finendo in un precipizio per circa 300 metri. Fu terribile». La passione, però, va oltre la disperazione, perché la montagna «atterra e suscita, affanna e consola», ricarica e fortifica.

Vive in città, Beppe Castelli, ma è parte della montagna

Si è formato tra le rocce, tra i sentieri di alta montagna, Beppe. Eppure lui viene dalla città, da Torino. Trascorreva sin da piccolo le vacanze in montagna, in una frazione di Cantoira, dove i genitori prendevano in affitto una casetta. «In quegli anni – dice – ho imparato ad apprezzare le bellezze della natura. Andavo al pascolo con il proprietario della casetta presa in affitto. Conducevamo pecore, capre e poche mucche. A sei anni, durante la prima di queste escursioni, verso il pascolo, vidi una capra fermarsi. Corsi subito a raccogliere ciò che, poi, capii essere escrementi. Urlavo felice: ecco da dove vengono i senateur». Si chiamavano così, in dialetto, le caramelle alla liquirizia. «Mi ricordo che il pastore – aggiunge – rideva a più non posso. Si piegava dalle risate. Si rotolava nell’erba. Da allora ho, effettivamente, familiarizzato con la natura. Mia mamma era disperata perché portavo a casa qualsiasi tipo di animale, tranne le vipere, perché mi avevano messo ben in guardia».

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La spedizione in Bolivia nel 1967

Poi non si è più fermato, Beppe Castelli. La voglia di esplorare, di affrontare qualsiasi tipo di montagna, in qualsiasi ambiente, hanno spinto Beppe ben oltre le Alpi. «Amo lo scialpinismo – afferma – e ho partecipato a diverse spedizioni nel mondo. Sono andato in Bolivia, nel ’67, sulla Cordigliera Blanca fino a oltre seimila metri. Sono stato in Marocco, lungo le pendici dell’Atlante. Con gli sci ho affrontato l’Elbrus nel Caucaso, a quasi seimila metri». Mostra con orgoglio, ma al tempo stesso con semplicità, ritagli di giornali che nel corso degli anni hanno documentato alcune delle sue imprese, in Italia e all’estero. Ma delle sue capacità e competenze Beppe Castelli non ha fatto solo una passione: ne ha fatto anche strumento di soccorso per atleti di sport invernali ed escursionisti. «Come volontario della Croce Rossa – ricorda – in occasione della corsa più alta del mondo, alle pendici dell’Everest, ho portato attrezzature e farmaci a un villaggio, facendo base a quota 3.800 metri». Beppe è stato protagonista del soccorso anche durante le Olimpiadi invernali a Torino 2006. «Ero a Sestriere – spiega – nei pressi della pista di discesa libera. Ricordo in particolare il soccorso a un cameraman che, candendo, si era fratturato una spalla. La pista era ghiacciata e l’uomo era molto alto. La paura era che ci potesse scivolare il toboga, ma per fortuna tutto andò bene». La montagna Beppe l’ha esplorata anche nelle sue viscere più profonde. Fu selezionato per un esperimento in grotta, coordinato dalla NASA e dal CNR e denominato “Speleo 87/88 Città Sotterranea”, a Frasassi, nelle Marche. «Per l’avventura in grotta fui nominato capo campo – mi spiega – Dopo accurati esami, alla clinica Universitaria di Ancona, su 60 volontari ne scelsero 14 di cui tre donne. Io fui scelto perché alpinista e abituato ai grandi spazi».

La vita di Beppe per i gipeti, i lupi, la natura

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La coppia di gipeti della Valle di Viù

Oggi, a 77 anni, Beppe continua a coltivare la passione per la montagna, anche se ha dovuto fermare la sua corsa verso la vetta, per qualche problema fisico intercorso negli anni. La natura, tutta, fa parte della sua stessa vita, la flora come la fauna. Da guardia ambientale volontaria si occupa in particolare del progetto di reinserimento del gipeto. «Circa dieci anni fa – ricorda – sono stati inseriti alcuni gipeti nel Parco Alpi Marittime. A distanza di sette anni, quasi richiamato da un legame naturale, lo stesso gipeto inanellato, portato al nido da Maurizio Chiereghin, referente coordinatore del nostro gruppo, è arrivato qui, proprio sulla montagna di Viù. Ed è da tre anni che la coppia di gipeti arrivata da noi nidifica nelle nostre Valli. Sono uccelli meravigliosi. Hanno un’apertura alare che arriva fino ai tre metri, con un piumaggio colorato e bellissimo soprattutto in età adulta». Beppe monitora e controlla la vita dei gipeti sulle Alpi, collaborando con il Gruppo Osservazioni Ornitologiche Valli di Lanzo. «Queste sono le foto dei gipeti – spiega poi mostrando, quasi con commozione, le foto dei suoi “piccoli” – Una è del gipeto bianco chiamato Palanfrè rilasciato nel Parco Alpi Marittime nel 2004 e trovato morto il 16 marzo del 2018 a Novalesa dove si era schiantato sulla linea di alta tensione perché debilitato dal veleno e da una fucilata a un’ala. Si conoscono solo altri due casi di gipeto bianco, di cui uno in Corsica e l’altro osservato tra la Val d’Ala e la Valle d’Aosta. Poi c’è la foto della coppia che nidifica in Val di Viù. Il gipeto maschio è stato chiamato Italia 150, per ricordare i 150 anni della nostra Italia. L’altra è del giovane Chateaux. Ogni anno diamo il nome al giovane nato. La coppia è ormai stabile sulle nostre montagne. Negli anni passati arrivavano gipeti provenienti dal versante francese. Oggi i gipeti presenti difendono il territorio e non lasciano avvicinare i vicini francesi. Il territorio che controllano è ampio. Comprende tutto il fondovalle delle tre Valli, per un’estensione di quasi 200 chilometri quadrati». Attualmente sulle Alpi ci sono circa 250 esemplari. «I gipeti sono l’ultimo anello della catena alimentare – spiega Beppe Castelli – Si cibano di ossa, arrivano dopo gli avvoltoi che si nutrono invece della carcassa degli animali. Una volta i gipeti venivano chiamati “avvoltoi degli agnelli” perché si credeva che portassero via gli agnelli, visto che nel loro nido veniva trovato del pelo, sembra invece che portino via il pelo degli animali morti per portar scaldare i piccoli nel nido. I gipeti nidificano nel mese di gennaio ad alta quota, anche a tremila metri».

Beppe monitora anche la presenza dei lupi sulle nostre montagne. «Sono arrivati in maniera spontanea dall’Abruzzo», spiega. Ma è vero che costituiscono un pericolo per le greggi e le mandrie? «Io ritengo che la convivenza sia possibile – sottolinea Beppe Castelli – Ovviamente i pastori devono stare assieme ai loro animali e non lasciarli soli. Ci si deve dotare di cani, di fili elettrificati. È naturale che se non si prendono precauzioni si rischia che il lupo veda le pecore, le capre e le mucche, come prede. Se si abbandonano gli animali da soli, per lungo tempo, per il lupo è come trovare il pasto servito, andando direttamente in macelleria». Beppe Castelli vive ancora in città, a Torino. «Ma appena posso scappo sulle montagne – sottolinea con forza – Vado da solo. Mi piace andare da solo, perché posso osservare tutto, meglio, senza distrazioni. Già essere in due significa scambiare qualche parola e si è distratti dalle meraviglie della natura. Si disturbano gli animali. A me piace essere parte dell’ambiente».

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Il Gipeto Bianco Palanfrè

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Il giovane gipeto Chateaux

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Un triste ricordo: la morte di Gianni Ribaldone

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L’impresa sul Cervino del 1963 sui giornali dell’epoca

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L’impresa sul Cervino del 1963 sui giornali dell’epoca

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L’impresa sul Cervino del 1963 sui giornali dell’epoca

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L’impresa sul Cervino del 1963 sui giornali dell’epoca

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La spedizione in Bolivia nel 1967

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La spedizione in Nepal nel 2003

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